Ritorno in Patria

Ritorno in Patria è uno dei racconti vincitori del concorso letterario “Racconti dal Trentino – Alto Adige” (edizione 2020), e pubblicato nell’omonimo libro.
Il concorso è stato organizzato da Historica edizioni con la collaborazione del sito Cultora.

Ritorno in Patria
Photo by Mark de Jong on Unsplash

Il terreno congelato scricchiola in maniera sinistra, geme e si lamenta ad ogni mio passo. Il buio di questa notte senza luna è accecante, avanzo a tentoni affidandomi all’istinto, alla fortuna e alla Provvidenza.
Mi muovo piano, scivolo nell’ombra. Striscio lungo il muro ovest del dormitorio e ne percorro il perimetro, fino a raggiungere la rete metallica che delimita il nostro campo.
Mi fermo, in attesa.
Perle di sudore gelido impreziosiscono il mio viso logoro. Una maschera di legno duro, intagliata da artigiani pazienti e senza scrupoli quali la fame e l’orrore. Gli occhi sono due pozzi nero pece, voragini sbarrate sulle istantanee di una guerra totale, sbagliata, inumana. Le profonde crepe delle labbra spaccate dal freddo, donano una lugubre sfumatura rosso sangue all’insieme dei lineamenti di un volto che non riconosco più.

Il mio cuore terrorizzato scalpita furioso. Il silenzio irreale nel quale sono immerso ne amplifica il suono, mi par quasi di sentirlo tuonare a ogni battito. Ogni falcata della sua folle corsa mi rimbomba nelle orecchie, e per un momento temo che le guardie possano fiutarne la paura. Le mie mani tremanti si chiudono istintivamente intorno al mio corpo.
Lo scalpiccio cadenzato del gruppo delle guardie di ronda rompe la staticità cristallina della notte, distogliendomi dal torpore della disperazione.
Tendo l’orecchio oltre al caseggiato dietro al quale sono nascosto, faccio un lungo respiro e deglutisco a fatica il grumo sabbioso che mi impasta la bocca.

È giunto il momento di agire, mi preparo ad attuare il mio piano di fuga.
Mi appiattisco alla parete di legno ruvido e rimango in ascolto. C’è qualche cosa che non va, un numeroso gruppo di soldati sta indugiando nei pressi del dormitorio, e la cosa non mi piace. Li sento correre disordinati da un edificio all’altro, e prima che io possa capire ciò che sta accadendo, il terrificante suono della sirena si unisce al frastuono generale. Gli uomini gridano ordini rabbiosi, mentre una muta di cani ringhianti viene sguinzagliata nel campo.

Mi hanno scoperto.
Non faccio in tempo a cercare una via d’uscita, che un fascio di luce illumina il mio viso pietrificato dal terrore. Alzo lo sguardo sul ghigno folle di un soldato ansimante.
«найденный!»
Trovato. Mi hanno trovato. Il sangue mi si gela nelle vene.

Ritorno in Patria
Photo by pure julia on Unsplash

Mi sveglio nel sole accecante di mezzogiorno, lascio che i miei occhi si abituino piano alla luce.
Rimango immobile con il fiato sospeso, non oso muovere un muscolo. Mi ritrovo disteso su di un manto erboso, i fili d’erba bruciacchiata pizzicano il mio viso. Attendo che la mente intontita ritrovi un poco della sua lucidità, che la realtà venga a bussare lieve alle porte della mia consapevolezza per scacciare la vivida immagine di quell’orribile riso maligno. Il respiro affannoso si fa mansueto mentre riemergo lentamente dalle nebbie oniriche del sonno.

Mi asciugo la fronte madida di sudore e stiracchio con attenzione le mie membra intorpidite, mi metto a sedere e lascio che il mio sguardo vaghi per le steppe sconfinate della Siberia.
È una terra aspra, dura e impietosa con gli uomini. La sua natura selvaggia e crudele è pregna di mistero e magia. Mi chiedo se mai potrei apprezzarne la bellezza, vivendola in un contesto diverso. Ma la guerra rovina ogni cosa. Che io sia diventato incapace di vedere la bellezza delle piccole cose?

Prendo il mio quaderno stropicciato, vi appunto questo pensiero vago. Aggiorno i miei ultimi spostamenti, facendo la conta dei giorni passati dalla mia fuga, e scrivo la data approssimativa di oggi.
Se non erro, deve essere passata una settimana.

Ritrovo la fotografia un poco sbiadita di Maria, la mia Maria. La stringo con tenerezza. Il suo sorriso mi scalda il cuore, mi dona un po’ di forza. Le carezzo i lineamenti del viso, sfioro la sterile carta con le labbra. Il cuore mi si fa pesante, terribilmente pesante. Ma devo farmi forza, la strada è ancora lunga. Ripongo con cura la fotografia nel quaderno, raccolgo le mie cose e mi preparo ad un altro maledetto giorno di marcia forzata.

●●●

Sono giorni ormai che cammino senza sosta, forse settimane.
Ho perso il conto del tempo nelle interminabili e gelide notti di sonno-veglia.
Sto perdendo la vita, un chilometro dopo l’altro.
Temo di perdere la ragione, tra le pieghe sanguinanti dei ricordi terribili che ogni notte si manifestano nel buio di un sonno agitato. I miei compagni sovente, vengono a farmi visita dal mondo dei morti. Riemergono dalle trincee putride, mi chiamano, mi inseguono.

Ho terminato da un pezzo le scorte di cibo che avevo rubato nelle cucine del campo, e i morsi della fame mi attanagliano ad ogni passo. Strascico a fatica i piedi sul terreno polveroso, sembrano fatti di pietra. Le braccia ciondolano senza scopo lungo un corpo ormai irriconoscibile, trasfigurato dalla guerra e dalla prigionia. Le mie gambe vanno avanti per inerzia.

Assisto inerme allo sfacimento del mio corpo, trascinandomi lungo la sottile linea che intercorre tra la vita e la morte.
Non sono morto, ma neppure vivo. Sono un fantasma.
Cado a terra, e non sento alcun dolore. Il vento sferza impassibile il mucchietto d’ossa tremanti, nel quale mi sono tramutato. Il gelo della steppa mi avvolge con fatale premura, ogni pena cessa di esistere.

Il mio corpo è inchiodato su questa terra triste e desolata, ma nella mente io sono libero.
Mi aggrappo al turbinio di ricordi che mi vortica dentro, e volo via… volo fino a te, amor mio. E torno al nostro paese, al lavoro nei campi e ai boschi maestosi. Torno ai miei amati monti, tra le braccia della mia cara mamma, protetto dal focolare del mio vecchio.
Torno ai nostri sogni perduti, al nostro amore. Ti prendo per mano, danziamo leggiadri tra le stelle. La tua voce guida la mia anima disperata. Un bacio rubato dalle tue labbra timide e torno alla vita. L’immagine sfuocata del tuo viso chiama dolce il mio nome, mentre vago disperso in una lacrima rapita dal vento.

I miei occhi si fanno pesanti. Poi, il nero della notte invade ogni cosa.
Giaccio immobile, attendo che la morte venga a farmi visita.

«Ehi! Ehi amico, stai bene? Forza, apri gli occhi, svegliati!»
Qualcuno mi scuote con forza dal dolce torpore dell’oblio, riportando la mia coscienza nel momento presente. Tutto il mio corpo ruggisce di dolore il suo ritorno alla vita.
Apro piano gli occhi, il viso di un giovane uomo si materializza davanti a me. Metto a fuoco un volto corrucciato in un’espressione preoccupata.
«Ah! Lo sapevo che eri vivo, me lo sentivo! Dai su, mettiti a sedere… così, bravo. Ecco, tieni po’ d’acqua.» Con premura mi aiuta a mettermi seduto, e mi porge una borraccia militare. Senza troppi complimenti mi attacco alla bottiglia, e quasi mi strozzo tanta è la foga con cui mi appresto a trangugiare quanta più acqua possibile.

«Piano piano, o finirai per strozzarti!»
L’acqua mi dona un immediato ristoro, lo guardo con riconoscenza e mi concedo un momento per ritornare in me. Ne approfitto per osservare meglio il buon samaritano che ha avuto pietà del povero diavolo morente quale sono, e non posso fare a meno di pormi delle domande. Non porta alcuna divisa, ma parla la mia lingua. Devo stare attento, se fosse italiano potrebbe tendermi una trappola. Non devo abbassare la guardia.

Risponde al mio sguardo sospettoso con gentilezza, raccoglie un fagottino dalla gerla al suo fianco, e ne estrae un tozzo di pane duro.
«Ecco, tieni. A vederti, stai morendo di fame.» mi porge quello che deve essere il suo pranzo, ma io rimango impassibile. Lo scruto con diffidenza.
«Che ti prende, non ti fidi? Te la sei vista brutta sai? … Che c’è, non capisci la mia lingua? … mmm, certo, ovvio. Ok, vediamo se mi ricordo ancora qualche parola…»

Si porta una mano al mento e si fa pensieroso. Dopo un attimo di titubanza assume un buffo atteggiamento timoroso. Poi, scandendo bene ogni lettera si accinge nell’impresa, e alzando il tono di voce mi grida letteralmente addosso:
«D U – B I S T – A L L E S – O K??»
Accompagna la domanda con un’ampia gestualità delle mani, in una sorta di balletto ridicolo, per poi fermarsi a guardarmi evidentemente soddisfatto.

Ma che mi ha preso per un demente? Lo fisso esterrefatto, questa proprio non me l’aspettavo! Non riesco a trattenere una fragorosa risata, tanto che l’acqua mi va di traverso. Comincio a tossire come un ossesso, e tra una risata e l’altra il giovane mi dà qualche pacca sulla schiena.
«Non sono mica sordo,» riesco infine a dire, tra un colpo di tosse e l’altro, «perché diavolo urli?»
Il ragazzo mi guarda sornione, con un’espressione a metà tra la sorpresa e il sollievo.
«E che ne so, te ne stavi lì imbambolato a fissarmi con quel tuo brutto grugno! Porti la divisa austriaca, che avrei dovuto fare?»

Lo guardo preoccupato. Quando decisi di fuggire dal campo di prigionia, mi ero dato la priorità di procurarmi dei vestiti civili. Sapevo bene che tenere la divisa è rischioso, equivale ad avere un gigantesco bersaglio sulla schiena. Purtroppo, l’occasione di liberarmi di questi dannati stracci non l’ho mai avuta.
«È vero sì… sono austriaco» rispondo, «ma sono trentino e parlo l’italiano»
Lo guardo dritto negli occhi, temendo il peggio. In fondo noi due apparteniamo a due fazioni opposte, e il nostro dovere è quello di combattere per la patria.

Lo strano ragazzo non sembra interessato alla mia nazionalità, anzi, rivolgendomi un gigantesco sorriso mi dà una pacca bonaria sulla spalla.
«E perché cavolo non lo hai detto subito? Mi sarei risparmiato una figuraccia! Dai, prendi.»
Mi porge nuovamente il misero pezzo di pane.
«Lo so, non è niente di speciale… anzi probabilmente fai bene a essere diffidente, ma se togli la muffa così… la gratti via, vedi? Ecco, ora è come nuovo!» e torna a puntare i suoi grandi occhi buoni su di me.

Questo giovanotto ispira una profonda fiducia, decido di fidarmi di lui e accetto il suo dono.
«Ehm… grazie, grazie davvero» dico in un sussurro, abbassando lo sguardo. Provo vergogna, ma non ne comprendo bene il motivo.
«E di che! Se non ci si aiuta di questi tempi, dove andremo a finire? Comunque, il mio nome è Luigi» e così dicendo, allunga una mano verso di me. Gliela stringo con forza, anche se di forza me ne è rimasta ben poca.
«Riccardo. Io mi chiamo Riccardo.»

Mi rialzo a fatica. Luigi mi assicura che a qualche chilometro da lì c’è un piccolo villaggio di contadini russi, ci dirigiamo quindi in quella direzione.
Mi racconta di esservi giunto per caso, un paio di giorni prima, e che nonostante l’estrema povertà la gente del posto lo ha accolto e ospitato.
«Stavo andando a prendere della legna, è così che ti ho trovato. All’inizio pensavo fossi morto, mi hai fatto prendere un bel colpo!»
Luigi mi sorride contento.
«Perché lo hai fatto?» chiedo. Luigi sembra non capire.
«Perché mi hai salvato la vita? Non eri tenuto a farlo. Io sono austriaco, noi siamo nemici… almeno, sulla carta.»
Luigi si ferma, per un attimo mi scruta serio. Poi, un sorriso fa capolino sul suo viso.

«Riccardo, ma che differenza fa il paese dal quale vieni? Non l’abbiamo certo voluta noi, questa guerra maledetta. Io non credo negli assurdi ideali del tanto decantato nazionalismo. Credimi, quelli lì sono solo dei fanatici da strapazzo! Considera per esempio le condizioni delle famiglie che vivono in queste steppe: sono contadini, boscaioli, allevatori… come te e come me. Sono costretti a vivere nella miseria a causa dell’assurdo ideale che la parola ‘patria’ trascina con sé.

Queste idee non portano altro che distruzione e povertà. La patria non è un fazzoletto di terra delineato da confini immaginari e invisibili. Questo è quello che vogliono farci credere. Per quel che mi riguarda, la patria è quel luogo nel quale si sta bene e si è felici. È la casa dei nostri genitori, è nostra moglie, sono i nostri bambini. Questo è la patria, perché un uomo è definito proprio da questo. Tutto il resto è solo fumo negli occhi. Ciò che conta davvero in questo mondo, è l’amore fraterno. E non mi riferisco certo ai legami di sangue!
Mi domando quando mai riusciremo a capirlo… »

I suoi occhi sono lucidi per l’emozione, ha l’espressione radiosa e beata di chi ha raggiunto una consapevolezza più profonda.
Annuisco, scoprendomi un poco commosso dalle sue parole, e insieme ci incamminiamo nella stessa direzione.
Ci incamminiamo verso ovest, verso casa.

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